Estratto: The Dressmaker - Rosalie Ham


Trama: Dungatar è una cittadina di provincia come tante altre, tranne che per un dettaglio: le donne di Dungatar si vestono come modelle di Parigi. Un giorno in città arriva la bella ed esotica Tilly, ritornata a casa dall'Europa per assistere la madre malata. Da vent'anni Tilly se n'è andata e sulla sua repentina partenza è calato un velo di disapprovazione e silenzio. Ora ha fatto ritorno, guardata con malizia e sospetto dagli abitanti molto perbene che vedono nella sua eccentricità estrosa una minaccia. Ma Tilly possiede un talento: è una stilista sorprendente. Con cautela nelle case iniziano a circolare voci sui meravigliosi abiti che confeziona e tra gli ammiratori c'è perfino il capo della polizia, lui stesso sarto provetto. Tilly inizia così a guadagnarsi vestito dopo vestito la fiducia della città e tutto sembra mettersi al meglio. Ma dal passato un segreto è pronto a riaffiorare, e proprio quando Tilly si innamora le cose cominciano ad andare terribilmente male…



L’impressione di essere ben vestiti dà un senso di tranquillità interiore che la religione è incapace di offrire. MISS C.F. FORBES citata da Ralph Waldo Emerson in Social Aims




I viaggiatori che percorrevano le pianure gialle di grano verso Dungatar notavano subito una macchia scura che luccicava ai margini della distesa. Più avanti lungo la strada asfaltata la macchia prendeva la forma di una collina. In cima alla Collina c’era una casa diroccata di legno, provocatoriamente inclinata sul pendio erboso. Sembrava sul punto di perdere l’equilibrio, ma un glicine vigoroso la teneva avvinta a un solido camino. I passeggeri che arrivavano a Dungatar in treno vedevano la pericolante casa marrone quando sentivano il vagone svoltare lentamente verso sud e lanciavano un’occhiata fuori dal finestrino. Di notte, la luce della casa si scorgeva dalle piane circostanti: dalla casa della Pazza Molly un faro tremolante ammiccava in un vasto mare nero. Al tramonto l’ombra della Collina sulla piccola città si estendeva fino ai silos. Una notte d’inverno Myrtle Dunnage cercò la luce della casa materna oltre il parabrezza di un pullman della Greyhound. Aveva scritto alla madre poco tempo prima, ma non avendo cos’è, un telefono”. “Le ho scritto” aveva spiegato Tilly, “ma non mi ha risposto. Forse non ha ricevuto la lettera?” “La Vecchia Pazza Molly non sa nemmeno cosa farsene di una lettera” era stata la replica. Tilly aveva deciso di tornare a Dungatar.






PERCALLE 
Stoffa in cotone di qualità variabile secondo il tipo di filo, la solidità del colore e il peso. Può essere ordita in una serie di motivi. Se trattata in modo adeguato è una stoffa durevole. Diversi sono i suoi utilizzi, dai sacchetti per cereali alle tende, dai grembiuli ai completi. STOFFE PER IL CUCITO


Il sergente Farrat si sistemò il cappello dell’uniforme, tolse un filo dal bavero e fece un saluto militare alla sua linda immagine riflessa. Si diresse di buon passo verso l’auto di pattuglia luccicante per iniziare il giro serale, sapendo che tutto andava per il verso giusto. La gente del posto era tranquilla e gli uomini dormivano, perché il giorno seguente avrebbero potuto vincere sul campo di football. Fermò l’auto nella strada principale per controllare gli edifici dai tetti color argento. La nebbia li avvolgeva, facendosi più fitta attorno ai muri e ai pilastri dei cancelli, formando tende sottili tra gli alberi. Conversazioni ovattate si diffondevano dallo Station Hotel. Esaminò i veicoli che si avvicinavano cautamente al pub: le solite Morris Minor e Austin, un’utilitaria, la Wolseley del consigliere Pettyman e l’imponente ma affaticata Triumph Gloria dei Beaumont. Un pullman della Greyhound si fermò con un sibilo rumoroso davanti all’ufficio postale, illuminando con i fari il suo volto basco e un soprabito dal taglio insolito. “Molto elegante” pensò il sergente. L’autista prese una valigia dal bagagliaio e la portò fino al portico dell’ufficio postale, lasciandola in un angolo buio. Tornò a prenderne un’altra e un’altra ancora, e poi tirò fuori qualcosa in una custodia a cupola con la scritta “Singer” stampata a lettere dorate su un lato. La passeggera la teneva in mano mentre guardava verso il fiume e lungo la strada. «Che mi prenda un colpo!» esclamò il sergente Farrat precipitandosi fuori dalla macchina. Quando la donna sentì sbattere la portiera, girò i tacchi e si incamminò verso ovest, in direzione della Collina. Alle sue spalle il pullman si allontanò rombando, le luci posteriori si facevano sempre più piccole, ma lei udì qualcuno che si avvicinava. «Guarda, guarda, Myrtle Dunnage!» Lei accelerò il passo. Il sergente Farrat la seguì. Osservò gli stivali eleganti – “Italiani?” si chiese – e i pantaloni, sicuramente non di serge. «Myrtle, lascia che ti aiuti.» Poiché lei continuava a camminare, il sergente scattò in avanti e le strappò di mano la custodia a cupola, facendola voltare. Si fissarono negli occhi, l’aria bianca vorticava intorno a loro. Tilly era diventata una donna e il sergente Farrat era invecchiato. Imbarazzato, l’uomo portò la mano pallida alla bocca, poi scrollò le spalle e si avviò alla macchina con il bagaglio. Dopo aver messo l’ultima valigia di Myrtle sul sedile posteriore, le aprì la portiera dalla parte del passeggero e attese. Quando lei salì in macchina, il sergente fece inversione e si diresse a est. «Prenderemo la strada più lunga per andare a casa» disse. Tilly sentì un nodo allo stomaco. Scivolavano nella nebbia, e quando girarono attorno al campo di football lui disse: «Quest’anno siamo terzi in classifica». Tilly restò in silenzio. «Arrivi da Melbourne, giusto?» «Sì» rispose impassibile. «Ti fermi a casa per un po’?» «Non so.» Tornarono sulla strada principale. Quando oltrepassarono l’ingresso della scuola, lei udì le grida dei bambini che giocavano a softball il venerdì pomeriggio, le urla e i tonfi dei divertimenti acquatici al fiume. E quando svoltarono all’angolo della biblioteca in direzione della Collina, sentì l’odore del pavimento di linoleum incerato e vide una chiazza di sangue fresco sull’erba secca all’esterno. Affiorarono i ricordi delle volte in cui veniva accompagnata in macchina alla fermata dell’autobus dallo stesso uomo, tanti anni prima, e il nodo allo la pelle d’alabastro e gli occhi e i capelli della madre. Sembrava forte, ma ferita. «Qualcuno sa che sei arrivata, Myrtle?» chiese il sergente. «Mi chiamo Tilly» rispose lei. «Fra poco lo sapranno tutti.» Si girò a guardare il volto in attesa del sergente Farrat nel chiaro di luna nebbioso. «Come sta mia madre?» chiese. Lui aprì la portiera. «Tua madre… ultimamente non si fa vedere in giro» le rispose uscendo dalla macchina. La nebbia attorno alla veranda ondeggiava come le balze di una gonna mentre il sergente la fendeva con le valigie. Reggendo la pesante custodia a cupola disse: «Hai una bella macchina da cucire, Tilly ». «Sono una cucitrice e una sarta, sergente Farrat.» Aprì la porta sul retro. Lui batté le mani. «Fantastico!» «Grazie del passaggio.» Gli chiuse la porta in faccia. Allontanandosi in macchina, il sergente Farrat cercò di ricordare l’ultima volta che aveva fatto visita alla Pazza Molly. Era almeno un anno che non la vedeva, ma sapeva che Mae McSwiney la teneva d’occhio. Sorrise. «Una sarta!» La casa di Molly era umida e puzzava di piscio di opossum. Tilly tastò il muro polveroso per cercare l’interruttore della luce, l’accese, poi attraversò la cucina per andare in soggiorno, superò il vecchio divano lercio e raggiunse il caminetto. Avvicinò una mano alla cenere. Era gelida. Andò fino alla porta della camera della madre, girò il pomello e la spinse. Una luce fioca illuminava l’angolo vicino al letto. «Mamma?» Un corpo si mosse sotto il cumulo di coperte. La testa di uno scheletro che indossava un copriteiera si voltò sopra un cuscino di capòc sudicio. La bocca si spalancò come un buco nero e gli occhi infossati la guardarono. Molly Dunnage, la pazza megera, disse alla figlia: «Sei venuta per il cane, vero? Non puoi prenderlo. Vogliamo tenerlo noi». Fece un gesto a una folla di persone invisibili attorno al letto: «Dico bene?». Annuì verso di loro. «È questo che ti hanno fatto» disse Tilly. Una muffola rigida e sporca sbucò da sotto le coperte. Molly si guardò il polso ossuto. «Le quattro e mezzo» disse. Tilly scartò la bottiglia di brandy che aveva comprato per la madre e si sedette nel portico a guardare le forme sbiadite di una Dungatar addormentata. Rifletteva su quello che si era lasciata alle spalle e su quello a cui era tornata. Giunta l’alba, brindò con un sospiro alla grigia cittadina ed entrò in casa. Sfrattò le famiglie di topi che si erano installate tra gli asciugamani nell’armadio della biancheria e i ragni dalle e quando diventò limpida e calda riempì la vasca e vi aggiunse dei fiori di lavanda del giardino. Tirò fuori dal letto sudicio la madre barcollante e la portò fino alla vasca. La Pazza Molly le inveì contro, la graffiò e la colpì con le gambe e le braccia lunghe e magre, ma presto si stancò e si abbandonò comodamente nell’acqua. «Comunque» sbottò, «lo sanno tutti che le gelatine rosse restano dure più a lungo», e fece una risata stridula verso di lei con gli occhi stralunati e le gengive verdi. «Dammi i denti» disse Tilly. Molly serrò la bocca. Tilly le bloccò gli avambracci incrociati sul petto, poi le tappò le narici fino a quando non aprì la bocca per respirare. Le cavò i denti con un cucchiaio e li fece cadere in un secchio di ammoniaca. Molly strillò e si dimenò finché non fu esausta e pulita, e mentre lei era a mollo nella vasca Tilly disfece i letti. Quando il sole era alto trascinò sull’erba i materassi per arieggiarli. Più tardi rimise a letto il corpo ossuto della madre e le diede da bere del tè nero e dolce con il cucchiaio, parlandole per tutto il tempo. Le risposte erano deliranti e rabbiose, ma erano comunque risposte. Poi la madre si addormentò, così lei pulì la stufa, raccolse qualche ramoscello in giardino e accese il fuoco. Il fumo riempì la canna fumaria e un opossum attraversò il tetto dando colpi sulle travi. Tilly spalancò tutte le porte e le finestre e iniziò a buttare fuori le cose: una macchina da cucire vetusta e un manichino da sarta mangiato dalle tarme, l’involucro di una lavasciuga, vecchi giornali e scatole, tende sporche e pezzi rigidi di tappeti, un divano con le poltrone rovinate, tavoli rotti, contenitori di latta e bottiglie di vetro vuoti. Ben presto la casetta di legno si ritrovò sommersa dalla spazzatura. Quando la madre si svegliò, Tilly l’accompagnò al gabinetto esterno, dove la fece sedere con i mutandoni alle caviglie e la camicia da notte infilata nel maglione. Le legò le mani alla porta con la cintura della vestaglia, in modo che non potesse andarsene. Molly urlò con tutto il fiato che aveva in quei vecchi polmoni, fino a che non ebbe più voce. Più tardi Tilly riscaldò una crema di pomodoro in scatola, mise la madre seduta al sole – svuotata, pulita e avvolta in maglioni, guanti, berretto, calze, pantofole e coperte – e le diede da mangiare. La Pazza Molly continuò a blaterare per tutto il tempo. Tilly le pulì la bocca sporca di rosso. «Ti è piaciuta?» Lei le rispose, formale: «Sì, grazie, è sempre di nostro gradimento», e rivolse un sorriso garbato agli altri invitati del banchetto, prima di vomitare addosso alla strana donna che credeva la stesse avvelenando. Tilly tornò sotto il portico, la brezza le premeva i pantaloni sulle gambe sottili. Il fumo saliva in cerchi dal pentolone di rame nel cortile dei McSwiney ai piedi della Collina, accanto alla discarica. I forestieri credevano che ne facessero parte Edward McSwiney faceva il giro di notte con il suo carretto: era in grado di affrontare ogni gabinetto e ogni latrina di Dungatar – perfino nelle notti più buie e ventose – senza rovesciare una goccia. Usava il carretto anche di giorno, per le consegne, insieme a Barney, il figlio di mezzo, e una combriccola di ragazzini aggrappati sul retro. La piccola Myrtle aveva l’abitudine di osservare i bambini dei McSwiney che giocavano: il fratello maggiore, qualche anno meno di lei, le tre sorelle e Barney, che non era “del tutto finito”: deforme, con la testa rovesciata all’indietro e un piede equino. La cittadina riposava nell’intenso bagliore del sole mattutino. La stazione e il grigio silo quadrato si trovavano lungo la linea ferroviaria, il cui arco teneva gli edifici contro la curva del fiume Dungatar, come lentiggini su un naso. Il fiume era sempre stato misero e lento, soffocato da salici e giunchi, con l’acqua che risuonava per le zanzare. I pionieri fondatori di Dungatar avevano lasciato una piana alluvionale lungo l’insenatura interna, che adesso era una sorta di parco con al centro una sala civica, a est, di fronte alla loro farmacia, il basso e umido cottage degli Almanac e, a ovest, la scuola dove Prudence Dimm insegnava ai bambini della città da che se ne aveva memoria. La strada principale seguiva la curva del parco, separandolo dalla via commerciale. La stazione di polizia si trovava fuori, lungo la strada che portava a est, a metà tra il cimitero e i confini cittadini. Non era una strada trafficata e sul marciapiede c’erano pochi negozi: la farmacia, lo Station Hotel e l’A&M Pratt, Forniture Commerciali – un emporio che vendeva qualsiasi cosa. L’ufficio postale, la banca e il centralino telefonico erano raggruppati nell’edificio successivo, mentre nell’ultima costruzione, quella più a ovest, c’erano l’ufficio della contea e la biblioteca. Le case di Dungatar, sparpagliate dietro la via commerciale, erano divise da una stradina di ghiaia che portava al campo di football. L’occhio verde del campo era rivolto verso Tilly, con le automobili sul perimetro simili a ciglia. Dentro casa, sua madre iniziò ad agitarsi e a chiamare e l’opossum riprese a dare colpi sul tetto. Tilly andò verso il manichino sdraiato sull’erba. Lo mise in piedi e lo lavò con il tubo dell’acqua, lasciandolo al sole ad asciugare. 


Al sabato mattina la via principale di Dungatar risuonava dello scoppiettio dei trattori e delle robuste automobili inglesi con le famiglie dei pastori vestite a festa. I bambini più piccoli venivano affidati alle cure dei fratelli maggiori e mandati al parco, in modo che le madri potessero fare acquisti e spettegolare. Gli uomini formavano capannelli per parlare del tempo scrutando il cielo, mentre donne dalla pelle sottile e l’ossatura robusta in abiti floreali e cappelli di feltro sedevano ai banchetti e vendevano biglietti della lotteria. Il sergente Farrat oltrepassò un giovane seduto scomposto al volante di una polverosa Triumph Gloria e attraversò la strada dirigendosi da Pratt. Sul marciapiede fuori dal negozio incontrò Mona Beaumont. «Buongiorno, Mona» la salutò, «vedo che avete lasciato tuo fratello a casa, al sicuro.» «Mia madre dice che possiamo liiicenziare quel terriiibile aiuto bracciante, il signor McSwiiiney…» Mona aveva un modo tutto suo di appiattire e allungare le parole, così quando parlava con «Potresti scoprire che è impegnato altrove.» Mona si spostò leggermente, mentre si toglieva i pelucchi dai polsini del cardigan. «Mia madre diiice che le ragazze di quiii non sono raffinate.» Il sergente Farrat osservò il basco di tweed che le stava sulla testa come un gatto morto, la sua postura pesante e sgraziata. «Al contrario, Mona, la storia ci ha reso tutti indipendenti, è un’epoca di progressi: avere delle abilità è un vantaggio, soprattutto per il gentil sesso…» Mona fece una risatina alla parola sesso. «… prendi per esempio le commesse di Pratt: sono esperte di frutta secca, bulloni, polveri letali contro i parassiti delle pecore merinos, foraggio per il bestiame e anche di come trattare i pidocchi dei polli; conoscono la merceria, i conservanti per la frutta, gli indumenti intimi femminili. Sono adatte a ogni lavoro.» «Ma mia madre dice che non è raffinato…» «Sì, lo so che tua madre si considera molto raffinata.» Le fece un sorriso, inclinò il cappello a mo’ di saluto ed entrò nel negozio. Mona estrasse un fazzoletto stropicciato dal polsino, lo mise davanti alla bocca aperta e si guardò intorno con aria perplessa.
Alvin Pratt, sua moglie Muriel, la figlia Gertrude e il macellaio Reginald Blood lavoravano allegramente, indaffarati dietro il bancone. Gertrude si occupava di generi alimentari e abbigliamento. Legava ogni pacchetto con lo spago, che spezzava solo con le dita: un’abilità rivelatrice, pensava il sergente. La signora Muriel Pratt era l’esperta della merceria e della ferramenta, ma si mormorava che fosse più adatta a quest’ultima. Gli insaccati e la macelleria erano in un angolo in fondo al negozio, dove Reginald tagliava e segava le carcasse, infilava a forza il macinato nel budello delle pecore per poi disporre con cura le salsicce intorno a cerchi di lombate a fette. Il signor Alvin Pratt aveva maniere cortesi, ma era uno spilorcio. Prendeva gli scontrini dal registratore di cassa tre volte al giorno e compilava i debiti in ordine alfabetico nel suo ufficio di vetro. I clienti di solito gli davano le spalle, mentre Gertrude pesava i fiocchi d’avena o prendeva le aspirine, perché dopo aver tirato fuori i raccoglitori dai grandi cassetti di legno, lui voltava lentamente le pagine a righe blu facendoli aspettare. Il sergente Farrat si avvicinò a Gertrude, robusta e saggia, con un vestito blu a fiori, dritta come un fuso dietro il bancone. Sua madre, apatica e inespressiva, si sporse dal bancone accanto. «Tutto bene, Gertrude? Muriel?» «Benissimo, grazie, sergente» rispose Gertrude. «Oggi pomeriggio scappi a vedere i tuoi giocatori che vincono la partita, spero!» verso Muriel e sorrise. «Saresti così gentile da darmi del percalle a quadretti blu e un nastro coordinato per il bordo? Vorrei fare delle tende per il bagno.» Erano abituati ai modi da scapolo del sergente: comprava spesso stoffe per le tovaglie o per le tende. Secondo Muriel doveva avere la biancheria più bella della città. Al bancone della merceria, il sergente Farrat contemplò i bottoni in esposizione, mentre Muriel misurava e tagliava quattro metri e mezzo di percalle. Quando stese sul tavolo la carta da pacco, lui prese la stoffa per piegarla, stirandosela sull’uniforme e annusandone il profumo di amido e di nuovo. Dietro al bancone, Gertrude guardava la sua copia di “Women’s Illustrated”. DISEGNA LA TUA GONNA DA COWGIRL, c’era scritto a lettere cubitali sulla copertina, e una ragazza carina faceva la ruota in un’allegra gonna a quadretti bianchi e blu di percalle, tagliata in sbieco, con dei nastri decorativi. Sorrise maliziosa in segreto e guardò il sergente Farrat – una figura corpulenta con un pacco marrone sotto il braccio – mentre usciva dalla porta principale e attraversava la strada in direzione della Triumph. La macchina dei Beaumont era parcheggiata di fianco al parco. C’era qualcuno al posto di guida. Lei si avvicinò alla porta, ma Alvin Pratt la chiamò dal fondo del negozio: «Gertrude, un cliente al foraggio!». E così passò tra gli scaffali, sotto i lenti ventilatori a pale sul soffitto, fino al retro del negozio, dove la signorina Mona e la signora Elsbeth Beaumont di Windswept Crest si stagliavano sulla ghiaia luccicante del vicolo. La signora Beaumont “si dava delle arie”. Figlia di un agricoltore, aveva sposato il figlio di un ricco allevatore di bestiame, anche se non era poi così ricco come si era immaginata durante il fidanzamento. Era una donna piccola, spigolosa e magrissima, con il naso lungo e un’espressione autoritaria. Indossava, come sempre, un vestito da giorno di lino blu scuro e la pelliccia di volpe. All’anulare con le macchie di sole aveva una sottile fede d’oro sormontata da un grappolino di diamanti. La figlia le stava accanto in silenzio, attorcigliando un fazzoletto. Muriel, laconica e trasandata nel suo grembiule lurido, parlava con Elsbeth. «La nostra Gert è una ragazza bella e dotata. Quando hai detto che è tornato William?» «Oh» disse Gertrude con un sorriso, «davvero è tornato William?» Mona rispose: «Sì, è…». «Sto aspettando» sbottò la signora Beaumont. «La signora Beaumont ha bisogno del foraggio, tesoro» disse Muriel. Gertrude se la immaginò con un sacco di foraggio appeso al naso. «Desidera l’avena mescolata al foraggio, signora Beaumont?» è tornato tuo figlio» disse Muriel dandole di gomito. Elsbeth si voltò a guardare la ragazza china sul bidone del foraggio, che riempiva un sacco di iuta con una paletta, e poi disse ad alta voce: «William ha tanto di quel duro lavoro alla proprietà. Dovrà rimettersi in pari e dopo potrà pensare seriamente al nostro futuro. Ma per lui la proprietà non sarà tutto. William ha viaggiato, ha frequentato il bel mondo: dovrà cercare ben più lontano di qui per trovare una compagnia… “adeguata”». Muriel concordò annuendo. Gertrude, lì accanto, con il foraggio contro le ginocchia, si avvicinò a Elsbeth e le spazzò via qualcosa dalla spalla. Dei peli di volpe fluttuarono nell’aria. «Pensavo avesse qualcosa sulla sua povera vecchia volpe, signora Beaumont.» «Sarà stato un po’ di foraggio» disse quella arricciando il naso verso il negozio. «No» sorrise Gertrude con innocenza. «So di cosa si tratta. Sembra che lei abbia bisogno di una scatola di naftalina. Gliene prendo una?» Allungò di nuovo la mano, prese un ciuffo di pelliccia mangiato dalle tarme e lo fece ondeggiare nell’aria sotto il loro naso. Gli sguardi attenti delle donne attorno a Elsbeth fissarono le chiazze senza pelo della pelliccia che si sfoltiva. La signora Beaumont aprì la bocca per parlare, ma Muriel disse con voce annoiata: «Le metto in conto il foraggio come al solito». William Beaumont Junior era tornato a Dungatar la sera precedente, solo poche ore prima di Tilly Dunnage. Aveva frequentato l’Agricultural College a Armidale, una cittadina dell’entroterra. Quando era sceso dal treno, la madre gli si era fiondata addosso e strizzandogli le guance tra le mani gli aveva detto: “Figlio mio, sei tornato a casa per il tuo futuro… e per tua madre!”. In quel momento sedeva nella macchina di famiglia ad aspettare lei e la sorella, con la “Gazzetta comunitaria di Dungatar, Winyerp e Argus” spiegazzata sulle gambe. Guardava lungo la strada principale, verso la baracca sulla Collina, osservando la spirale di fumo che usciva dal comignolo. Quella baracca era stata costruita molto tempo prima da un uomo che verosimilmente voleva avvistare i banditi in avvicinamento. L’uomo era morto poco dopo averla terminata, così il consiglio municipale l’aveva acquistata insieme alle terre circostanti e poi aveva scavato la discarica ai piedi della Collina. All’epoca le avevano pagate quattro soldi. William pensò per un istante che sarebbe stato bello vivere lassù, in cima alla Collina, isolato ma in grado di vedere tutto. Fece un sospiro e guardò a est, verso le pianure, il cimitero e le fattorie dietro la stazione di polizia ai bordi della città, oltre le fatiscenti facciate in mattoni dei negozi e le pareti di legno travolto dall’insicurezza abbassò lo sguardo, con il mento che gli tremava. La portiera dell’auto si aprì e lui sussultò. Mona si sedette educatamente sul sedile posteriore. «Nostra madre dice di andare.» William si diresse sul retro di Pratt e mentre caricava il foraggio nel bagagliaio, vide una ragazzona che gli ammiccava dall’ampio portone: una ragazza sorridente e in attesa, accanto alla madre insignificante, su uno sfondo di ami da pesca e lenze, tosaerba, corde, pneumatici per macchine e trattori, tubi per innaffiare e briglie per cavalli, secchi smaltati e forconi, in una nuvola di pulviscolo di grano. Quando si allontanarono, Mona si soffiò il naso e disse: «Ogni volta che veniamo in città mi viene la febbre da fieno». «Non fa bene neanche a me» commentò Elsbeth guardando la gente dal finestrino. Le donne ai banchetti sulla strada, i venditori e gli acquirenti erano radunati in gruppi sul marciapiede a osservare la Collina. «Chi vive adesso dalla Pazza Molly?» chiese William. «La Pazza Molly» rispose Elsbeth. «A meno che non sia morta.» «Qualcuno è vivo: hanno acceso il fuoco» disse lui. Elsbeth si voltò di scatto e lanciò un’occhiata dal lunotto. «Fermati!» gridò. Il sergente Farrat si bloccò davanti all’ufficio della contea per osservare la Collina, poi si voltò per guardare la strada. Nancy Pickett era curva sulla sua scopa logora fuori dalla farmacia, mentre Fred e Purl Bundle arrivavano a piedi dal pub per raggiungere le sorelle Ruth e Prudence Dimm davanti all’ufficio postale. Nel suo ufficio al piano di sopra, il consigliere Evan Pettyman alzò la tazza di caffè e si dondolò sulla poltrona in pelle da presidente della contea per scrutare fuori dalla finestra. Poi trasalì, versando il caffè e imprecando. Nelle vie secondarie della cittadina, Beula Harridene correva tra le casalinghe, in vestaglia e bigodini nei loro pezzetti di giardino, sibilando: «È tornata. Myrtle Dunnage è tornata». Alla discarica, Mae McSwiney osservava il figlio Teddy che dal loro cortile guardava l’esile ragazza in pantaloni coi capelli mossi dalla brezza che stava sotto il portico. Mae incrociò le braccia e aggrottò la fronte. Quel pomeriggio il sergente Farrat era in piedi davanti al tavolo, molto concentrato, con la lingua che cercava senza sosta la punta del naso. Fece scorrere il pollice esperto sulle punte affilate delle forbici dentellate, che scricchiolarono tagliando il percalle. Da bambino il piccolo Horatio Farrat viveva con la madre a Melbourne, sopra il negozio di una modista. Da grande, si era arruolato nella polizia. Poco dopo la cerimonia di diploma, Horatio aveva avvicinato i suoi superiori mostrando erano contenti che il nuovo poliziotto fosse anche un giudice di pace e che, a differenza di quello precedente, non facesse parte della squadra di football e non insistesse per bere birra gratis. Il sergente era capace di disegnare e confezionarsi vestiti e cappelli per ogni stagione. I completi non erano necessariamente adatti al suo fisico, ma restavano unici. A Dungatar li indossava solo in casa, ma godeva pienamente del loro effetto durante le ferie annuali. Gli piacevano le vacanze in primavera, quando trascorreva due settimane a Melbourne facendo acquisti, divertendosi alle sfilate da Myers e David Jones e andando a teatro, anche se era sempre bello ritornare a casa. Il giardino soffriva senza di lui e il sergente amava la sua cittadina, la sua casa, il suo ufficio. Si sistemava davanti alla sua Singer, senza scarpe, e spingeva il pedale mentre guidava le cuciture della gonna sotto l’ago. Dal campo di football, dove i giovani erano in tribuna a bere birra, giunsero colpi di clacson e grida di incitamento. Gli uomini in cappello e soprabito grigio si radunarono vicino agli spogliatoi, gridando e fischiando; e quel giorno anche le loro mogli avevano disertato i lavori a maglia per guardare ogni movimento della squadra. Sotto il gazebo del rinfresco, deserto, le torte si carbonizzavano nel forno caldo, mentre i bambini si nascondevano dietro la pentola degli hot dog per rubare la glassa ai pasticcini. La folla gridava e i clacson si fecero udire ancora. Dungatar stava vincendo. Anche Fred Bundle, giù allo Station Hotel, colse i suoni che riecheggiavano nel pomeriggio grigio, così prese altre sedie dal giardino del pub. Una volta si era immerso nell’alcol, riducendo la pelle fradicia come uno strofinaccio del bar. Quel giorno stava servendo dietro il bancone e aveva aperto la botola con l’intenzione di spillare un altro fusto. Aveva allungato la mano verso la torcia, fatto un passo indietro e poi era scomparso. Era caduto in cantina: un volo di tre metri sui mattoni. Poi aveva spillato il fusto, finito il turno e chiuso come al solito. Quando il mattino successivo non si era fatto vedere a colazione per mangiare uova e pancetta, Purl era salita a controllare. Tirando indietro le lenzuola, aveva scoperto che le gambe del suo ex rover erano viola e gonfie come tronchi di eucalipto. Il dottore aveva detto che si era incrinato entrambi i femori in due punti. Adesso Fred Bundle era astemio. Purl canticchiava in cucina mentre risciacquava la lattuga, tagliava i pomodori e imburrava le fette di pane bianco per i tramezzini. Come padrona di casa e moglie di un gestore di pub, riteneva essenziale essere attraente. Acconciava i capelli biondi tinti tutte le sere, metteva lo smalto sulle unghie e il rossetto sulle labbra, abbinandoci i nastri che portava in testa. Prediligeva i pinocchietti e le ciabattine con i tacchi e i fiori di plastica. Gli ubriachi si toglievano il cappello in sua presenza e me non importa pagare per una piega decente.” “Sono solo gelose” le diceva sempre Fred, dandole un pizzicotto sul sedere; così tutte le mattine Purl si metteva di fronte allo specchio della toletta, sorrideva al suo riflesso biondo e cremisi, e diceva: “La gelosia è una sciagura e la bruttezza fa ancora più paura”. Si udì il fischio di fine partita e dal campo si diffuse la canzone della squadra a volume sempre più alto. Fred e Purl si abbracciarono dietro il bancone e il sergente Farrat si fermò per esclamare: «Urrà!». La sirena non raggiunse il signor Almanac nella sua farmacia. Era impegnato a sfogliare pacchi di fotografie appena arrivate dal laboratorio di Winyerp. Studiava le immagini in bianco e nero alla luce del frigorifero aperto, che conteneva molti segreti: l’olio di pesce halibut, preparati, pillole colorate dentro a barattoli pieni di cotone, pomate, panacee e lassativi, emetici, farmaci inibitori, pozioni per ogni ruga o piega della pelle, contenitori in ceramica, oli insetticidi per pelo infestato da parassiti, vasetti di vetro macchiati, recipienti con funghi per il ciclo femminile o essenze di animali per le irritazioni maschili, diossido di stagno per foruncoli, carbonchi, acne e orzaioli, cataplasmi e tubetti per emorragie nasali, cloroformio e sali, unguenti e soluzioni saline, minerali e tinture, pietre, cere e abrasivi, antiveleni e ossidanti letali, latte di magnesia e acidi per corrodere i tumori, lame, aghi e filo solubile, erbe e sostanze abortive, antiemetici e antipiretici, resine e tappi per le orecchie, lubrificanti e congegni per rimuovere oggetti imprevisti dagli orifizi. Il signor Almanac curava i concittadini con il contenuto del suo frigorifero, solo lui sapeva di cosa avevi bisogno e perché – il dottore più vicino era a una cinquantina di chilometri. Stava esaminando le istantanee bianche e grigie di Faith O’Brien… Faith sorridente con il marito Hamish alla stazione e Faith adagiata su una coperta, accanto alla Ford Prefect nera di Reginald Blood: la camicia sbottonata, la gonna sollevata con la sottoveste in vista. Il signor Almanac borbottò: «Peccatori» rimettendo le fotografie nella busta bianca e azzurra. Infilò il braccio rigido e deforme fino in fondo al frigorifero e afferrò un vasetto di pasta bianca. Quando era andata da lui, Faith gli aveva sussurrato di avere “un prurito… lì in basso” e ora sapeva che il voglioso marito non era la causa del suo fastidio. Svitò il tappo e annusò, poi allungò la mano verso il barattolo di abrasivo al giglio bianco sul lavandino accanto a lui. Ne prese un po’ con le dita, lo mescolò alla pozione e tappò il vasetto mettendolo sullo scaffale più in alto. Richiuse lo sportello del frigorifero e si aggrappò al bordo. Con un grugnito, il vecchio anchilosato fece ondeggiare lievemente il busto curvo a sinistra e a destra finché, prendendo lo slancio, si trovava dentro contenitori di vetro rinforzati con fil di ferro o su tavoli dalle sponde alte come quelli da biliardo per non far cadere nulla quando li urtava. Il Parkinson in stato avanzato l’aveva reso curvo: un punto interrogativo bisbetico, perennemente a testa china, che faceva passetti incerti dentro al negozio e attraversando la strada per tornare alla sua casa bassa e umida. Ormai, se in negozio non c’era Nancy, la sua assistente, gli urti contro le cose erano i suoi amici inseparabili, e i clienti si erano abituati a salutare soltanto la cima della sua testa calva dietro il melodioso registratore di cassa placcato in rame. La sua malattia avanzava di pari passo alla rabbia che provava per lo stato dei marciapiede di Dungatar, come aveva scritto al signor Evan Pettyman, il presidente della contea. Il signor Almanac rimase lì bloccato e curvo sul bancone finché non comparve Nancy. «Eccomi, capo… sono qui.» Lei lo guidò fino alla porta tenendolo delicatamente per il gomito, gli ficcò il cappello in testa e gli avvolse la sciarpa attorno al collo, facendogli un nodo sulla nuca, nel punto che un tempo apparteneva alla testa. Poi si abbassò di fronte a lui per guardarlo in faccia. «È stata una partita combattuta, oggi, capo. Abbiamo vinto solo per otto goal a due! Mi sa che c’è stata qualche piccola ferita, ma io gli ho detto che lei ha una valanga di unguenti e bende.» Gli diede una piccola pacca sulle vertebre cervicali, lo aiutò a mettere il cappotto bianco e camminò lentamente con lui fino al marciapiede. La signora Almanac era sulla sedia a rotelle davanti al cancello dall’altra parte della strada. Un’occhiata a destra e a sinistra, e poi Nancy spinse il suo capo, che superò come un motore scoppiettante una sporgenza in mezzo all’asfalto, proseguendo in direzione della moglie che reggeva un cuscino a braccia tese. Il signor Almanac si fermò dolcemente col cappello sul cuscino, arrivando a casa sano e salvo. A Windswept Crest, Elsbeth Beaumont era davanti alla stufa Aga nella cucina di casa a irrorare amorevolmente un arrosto di maiale – suo figlio adorava quello sfrigolio. William Beaumont Junior era al campo di football, rideva con gli altri uomini nel vapore dello spogliatoio, tra i ragazzi nudi e l’odore di sudore e calze usate, di sapone Palmolive e linimenti. Si sentiva rilassato, audace e sicuro di sé, nell’intimità serena e rude che si creava con le ginocchia sbucciate e sporche d’erba, le canzoni, il turpiloquio. Scotty Pullit sorrideva accanto a lui, mentre beveva da una fiaschetta di latta e saltellava sul posto. Scotty era gracile e paonazzo, con un naso a patata dalla punta bluastra e una brutta tosse grassa perché fumava un pacchetto di sigarette al giorno. Aveva fallito come marito e anche come fantino, ma aveva trovato il successo e la popolarità per caso, dopo aver fiume. L’acquavite l’aveva bevuta quasi tutta lui, ma una parte l’aveva venduta a Purl o gliel’aveva data in cambio di cibo, soldi per l’affitto e sigarette. «E che mi dite del primo goal del terzo quarto?! Ce l’avevo già in tasca e dopo, bello mio, si trattava solo di aspettare la sirena, eravamo praticamente alla fine…» Si mise a ridere e poi tossì fino a diventare viola. Fred Bundle stappò la bottiglia con la maestria di un barman e la inclinò verso il bicchiere: il liquido scuro scendeva denso. Mise il bicchiere sul bancone davanti a Hamish O’Brien e raccolse le monete bagnate dallo strofinaccio. Hamish fissò la sua Guinness aspettando che la schiuma calasse. La prima ondata di gente in festa arrivò cantando per la strada, e piombò nel pub portandosi dietro l’aria fredda e la vittoria – il locale si riempì di persone e di chiasso. «I miei ragazzi!» esclamò Purl spalancando le braccia verso di loro, il viso illuminato dal sorriso. Si fermò a fissare il profilo di un giovane uomo – accadeva spesso – ma quel volto apparteneva al suo passato, un passato che aveva seppellito con l’aiuto di Fred. Era ferma, con le braccia aperte, a guardare il giovane che beveva la birra, mentre vicino a lei i giocatori cantavano e si davano spintoni. Lui si girò a guardarla, aveva un po’ di schiuma sul naso. Purl sentì una stretta al basso ventre e si tenne al bancone con la fronte contratta e una smorfia di dolore sulle labbra. «Bill?» disse. Fred le si mise accanto. «William assomiglia più a suo padre che a sua madre… che ne dici, Purl?» Le tenne il gomito. «Sono William» disse il giovane, togliendosi la schiuma dal naso, «non un fantasma.» Sorrise come suo padre. Teddy McSwiney lo affiancò al bancone. «C’è la remota possibilità di avere una birra, Purl?» Purl fece un respiro lungo e incerto. «Teddy, il nostro inestimabile full forward : hai vinto per noi, oggi?» Teddy intonò l’inno della squadra e William gli andò dietro, così tutti ripresero a cantare. Purl tenne d’occhio il giovane William, che aveva la risata facile e offriva giri di bevute anche quando non era il suo turno, per sentirsi parte del gruppo. Fred, invece, tenne d’occhio la sua Purly. Dal fondo del pub il sergente Farrat incrociò lo sguardo di Fred e gli indicò l’orologio. Erano passate da un po’ le sei di sera. Fred alzò i pollici. Purl raggiunse il sergente sulla porta mentre si infilava il cappello. «Ho sentito che la giovane Myrtle Dunnage è tornata.» Lui annuì e si voltò per andarsene. «Non è che si ferma, vero?» «Non lo so» rispose. Poi se ne andò e i giocatori fissarono le tavole di masonite alle finestre e alle porte a vetri – le coperture per i raid aerei notturni rimaste dalla guerra. Purl tornò al bancone, versò un grosso boccale di birra schiumosa e lo mise pub, che assomigliava a una radio nella nebbia, con la luce che filtrava dai bordi delle tende e il suono degli sportivi, dei vincitori e dei bevitori che cantavano all’interno. Difficilmente sarebbe passato l’ispettore distrettuale. Si mise a guidare, con i tergicristalli che spargevano la rugiada sul parabrezza; prima andò giù al torrente per controllare che non ci fossero ladri alla distilleria di Scotty, poi oltre la linea ferroviaria verso il cimitero. Là c’era la Ford Prefect di Reginald Blood, coi vetri appannati, che dondolava dolcemente dietro le lapidi. Dentro l’automobile, Reginald sollevò la testa dal seno prosperoso di Faith O’Brien e disse: «Sei una creatura liscia e tenera, Faith» e le baciò la morbida areola beige attorno al capezzolo turgido, mentre suo marito Hamish se ne stava al pub dello Station Hotel a succhiare la schiuma beige della sua pinta di Guinness. 


C’era un buco – una pausa – tra i bambini dei McSwiney, dopo Barney, ma una volta abituatisi a lui, i genitori avevano deciso che non era poi così terribile e avevano ricominciato abbastanza in fretta. Adesso la progenie dei McSwiney ammontava a undici figli. Teddy era il primogenito di Mae – il suo meraviglioso ragazzo: sfrontato, in gamba, furbo. Al pub gestiva un gioco di carte il giovedì sera e uno d’azzardo il venerdì, organizzava le serate danzanti del sabato, faceva l’allibratore, vinceva sempre alle corse dei cavalli ed era il primo a mettere in palio una gallina se una persona aveva bisogno di fondi. Avrebbe saputo vendere il ghiaccio agli eschimesi, si diceva. Apprezzato full forward del Dungatar, era affascinante e piaceva alle belle ragazze, ma restava pur sempre un McSwiney. Secondo Beula Harridene era solo un fannullone e un ladro. Seduto sulla poltrona di un vecchio autobus fuori dalla sua roulotte, Teddy lanciava qualche occhiata al fumo che usciva dal comignolo della Pazza Molly mentre si tagliava le unghie dalle sanguisughe, come piscina per i più piccoli. Mae McSwiney lanciò le lenzuola bagnate sul filo del telegrafo teso fra le roulotte e poi le distese, scacciando il pappagallo domestico. Era una donna pratica, che indossava vestiti semplici e un fiore di plastica dietro l’orecchio, florida e curata, con la pelle pulita e lentigginosa. Togliendosi le mollette di bocca disse al figlio: «Ti ricordi di Myrtle Dunnage? Se n’è andata via da bambina quando…». «Mi ricordo» rispose Teddy. «L’ho vista ieri. Ha portato carriole di cianfrusaglie alla discarica.» «Le hai parlato?» «Non vuole parlare con nessuno.» Mae tornò al bucato. «D’accordo…» Lui alzò lo sguardo verso la Collina. «È una bella ragazza».....

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